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VANITÀ E POLITICA, ACCOPPIATA PERICOLOSA
Per la prima volta la campagna elettorale è dominata dai social, anche se non sappiamo quanto potranno pesare sul risultato.
Anni Venti, anni vanitosi. Lo ricorderemo anche così, il tempo in cui abbiamo imparato a specchiarci dentro i social, incuranti delle conseguenze. La vanità è sempre esistita: l’Ecclesiaste, com’è noto, ha affrontato la questione con una certa efficacia. Ma le occasioni per esibirsi, durante la storia dell’umanità, erano limitate. Finché ci siamo trovati per le mani uno strumento che si fa chiamare furbescamente telefono, ma è di fatto il nostro palcoscenico perpetuo.
Questa è la prima campagna elettorale in cui i social sono al centro della scena. Non sappiamo quanto peseranno sul risultato; per ora servono ai leader politici per annunciare, litigare, accusare, condannare. Ma soprattutto per apparire. C’è qualcosa di disperato in certe esibizioni. Qualcosa di ossessivo. Il rischio di sembrare ridicoli, o patetici, non spaventa. L’importante è esserci e mostrarsi. La speranza è raccattare qualche voto, ovvio. Ma c’è dell’altro.
Per cominciare, una quantità industriale di narcisismo. La vanità personale è un carburante potente della politica, certo: permette di non sentire la fatica, di moltiplicare gli sforzi, di assorbire tradimenti, fallimenti e delusioni. Ma da qualche tempo è diventata patologica. La carrellata di personaggi pronti a tutto per farsi notare è surreale. I mini-leader dei micro-partiti, poi, sono grotteschi: l’impressione è che godano immensamente di questo mese di celebrità. Il momento, per tutti noi, è drammatico. Per loro, sembra una festa.
Ci sono state diciotto elezioni politiche nell’Italia repubblicana: ho votato in dodici, e qualcosa ricordo. Mai visto nulla di paragonabile.
Quand’ero bambino, durante le vacanze in montagna a Bratto (Bergamo), abitavamo sul pianerottolo di Luigi Granelli (1929-1999), uno dei leader della DC, rappresentante della corrente «La Base». Piccoli appartamenti al secondo piano di una palazzina, con sala da pranzo, due camerette, un bagno (così passavano le ferie un notaio, mio padre, e un dirigente politico, negli anni Sessanta). Certo, l’on. Granelli era ambizioso e consapevole del suo ruolo. Ma non avrebbe mai accettato di fare il buffone per emergere. È legittimo provare un po’ di nostalgia per quell’Italia lì?
LA GUERRA AI LIBRI NON È FINITA.
A Londra la Fiera delle opere censurate o vietate proprio mentre l’attualità ci propone fenomeni di eliminazione particolarmente cruenti, come l’abbattimento fisico non solo dei volumi sgraditi ma persino dei loro autori
La Fiera delle rarità librarie (London’s Rare Book Fair), che si terrà a Londra dal 15 al 18 settembre, sarà dedicata ai Banned Book’s, i libri censurati o vietati nel passato più o meno remoto. Lo spunto è offerto dal centenario dell’ Ulisse di James Joyce uscito il 2 febbraio 1922. Risarcimento dovuto, se si pensa che il romanzo, nonostante la stima di Pound e di Eliot che ne avevano lette le anticipazioni sulla «Little Review» (confiscata per oscenità), non trovò editori londinesi disposti a pubblicarlo. Al punto che dovette intervenire la Shakespeare & Co. di Sylvia Beach perché il libro potesse vedere la luce: non a Londra ma a Parigi. Solo nel 1933, dopo vari processi, l’Ulisse ottenne il nulla osta per la stampa in Inghilterra e negli Stati Uniti. La Fiera di Londra esporrà tra l’altro: il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo, finito all’indice nel 1633, così come la Teoria della relatività di Albert Einstein che venne bruciata nei roghi nazisti. Censure religiose, politiche, morali che solo gli ingenui possono pensare come forme di cancellazione relegate per sempre negli archivi della storia.
Non è così infatti, e lo spiegava bene Umberto Eco quando sosteneva che c’è anche una censura per sottrazione e una censura dovuta all’eccesso (su cui i Paesi democratici dovrebbero interrogarsi). Detto ciò, la scelta della Fiera londinese arriva molto opportuna, visto che l’attualità ci propone fenomeni di eliminazione particolarmente cruenti, come l’abbattimento fisico non solo dei libri sgraditi ma persino dei loro autori, avvertiti come nemici di qualcosa (del popolo, di Dio, del senso morale, della verità eccetera). In questo, la linea di sangue che da Salman Rushdie 1988 arriva a Salman Rushdie 2022 passando, tra l’altro, per l’assassinio di Anna Politkovskaja nel 2006 è molto significativa. Mai dimenticare che viviamo in tempi di inquisizione e di persecuzione sempre e comunque. Rimaniamo un’umanità maledettamente primitiva.