SANITÀ PUBBLICA

Nessun testo alternativo automatico disponibile.Non siamo esperti in materia sanitaria, ma possiamo dire, com’è noto a tutti, che oltre un ventennio fa la sanità pubblica italiana era tra le migliori del mondo.

Oggi la sanità pubblica è in crisi per colpa della miope politica della vecchia partitocrazia che ha inserito, nella sanità, il profitto.

Gli ospedali pubblici, con annesse strutture private accreditate, sono diventati delle aziende. Le aziende in genere mirano solo al profitto e a premi, a volte a prescindere dal merito e dalla qualità gestionale, per i propri dirigenti. I dirigenti a loro volta sono nominati dalla politica e alla politica devono garantire alcune misure.

Non solo, oggi l’operatore sanitario (medico) viene, in parte, rimborsato a seconda del numero delle prestazioni. Questa è semplicemente una pazzia. È un lavoro a cottimo. Una forma di retribuzione calcolata in base alla quantità, spesso a discapito della qualità, di lavoro effettivamente fornito.

Non si possono mettere i medici in condizioni di dover operare o di ambire ad effettuare più prestazioni perché così si guadagna molto di più.

Il servizio sanitario non può essere portato avanti con logiche gestionali aziendali e di profitto.

Con questo sistema si è portati ad inventare nuove malattie, farmaci, servizi e prestazioni esternalizzati e cure varie, e spesso si effettuano interventi chirurgici inutili, gonfiando, così, a dismisura, i costi del SSN., con il risultato di una sanità pubblica costosa, sprecona e inefficiente.

L’obiettivo del nostro sistema sanitario non è più la salute, ma il fatturato.

Il profitto, dalla sanità pubblica, andrebbe abolito. Si risparmierebbero, secondo alcuni studiosi di sanità pubblica, diversi miliardi di euro.

È il profitto, per diverse industrie, professionisti e politica, che danneggia questo bene pubblico qual è la sanità, e quindi la salute del cittadino, sebbene esso sia un diritto tutelato e garantito dalla nostra Carta Costituzionale.

Proprio così: oggi il profitto è l’obiettivo al centro del nostro sistema sanitario, e questo distorce tutto.

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SIAMO D’ACCORDO!

L'immagine può contenere: una o più persone, persone in piedi, folla e spazio all'apertoCOME NON ESSERE D’ACCORDO CON QUESTA LETTERA CHE UN CITTADINO HA MANDATO A BEPPE SEVERGNINI, EDITORIALISTA DE “IL CORRIERE DELLA SERA”.

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Caro Direttore Beppe Severgnini, ai “moderati” come lei, De Bortoli, Cazzullo, etc, ossia le nostre zie e nonne della banalità (copyright by Marco Travaglio), sempre allarmati e preoccupati dai cattivoni populisti M5S e Lega, dai Trump, dalla Brexit (vecchi e ignoranti, dixit BSVEV), manca la voce ora che un altro vostro idolo, Manu Macron, sta franando verso il crollo politico. Il Gattopardo dell’élite francese, questo sprezzante monarca che impartisce lezioni al popolo come fosse Louis XIV, così amato dai mass media mondiali (uno a caso: il Corriere), si è rivelato un politico incompetente e detestabile in appena un anno, circondato da una corte dei miracoli allucinante (gli amichetti alla Benalla, Marchand…). Ma quando il popolo si lamenta e si rivolta contro l’establishment e lo status quo, voi attaccate col “pezzo di colore”: siete “preoccupati”, la democrazia è in pericolo, arriva l’Apocalisse, siamo sul Titanic… Gli elettori non votano come piacerebbe a voi (Monti, Renzie-MEBoschi, Macron, Hillary Clinton), e voi persistete nelle vostre faziosità e insulsaggini. Ma così siete diventati impopolari e non credibili, e soprattutto irrilevanti.

Fabrizio, l’aristocratico che cantava gli umiliati e offesi.

L'immagine può contenere: 1 personaDi Massimo Fini

Sabato pomeriggio nell’ambito di Bookcity Chiarelettere ha presentato al Dal Verme “Anche le parole sono nomadi”, una biografia di Fabrizio De André, un po’ particolare perché contiene anche alcune sue interviste. In sostanza un modo per ricordare questo grande rapsodo nell’imminenza del ventennale della sua morte (11 gennaio 1999).

Paolo Villaggio, genovese anche lui, definiva De André “il più grande poeta del Novecento”, esagerando un po’ come suo solito. Certamente De André non è stato “il più grande poeta del Novecento”, ma altrettanto certamente non è stato semplicemente un cantautore come altri pur grandi della sua generazione (dai genovesi Bindi e Lauzi ai milanesi Jannacci e Gaber) o di altri di quelle successive (De Gregori, Dalla per dire solo di alcuni). E stato un aedo, un rapsodo, un cantore. Nella mia percezione è stato innanzitutto un cantore della morte. E anche dell’amore ma solo in quanto conduce a morte. De André era affascinato, attratto, ossessionato dal fantasma, sempre presente, della morte e ‘la Nobile Signora’ è protagonista in moltissime delle sue canzoni, soprattutto quelle del periodo giovanile: Marinella, lei dopo una giornata sognante scivola nel fiume, Ballata del Michè, lui si impicca per amore, Leggenda di Natale, lui la seduce e lei ne muore, La ballata dell’amore cieco, lui si uccide per lei, indifferente, La canzone dell’amore perduto (“ma più del tempo che non ha età siamo noi che ce ne andiamo”), Si chiamava Gesù, per la morte, senza resurrezione, di Cristo, Preghiera in gennaio, per Tenco suicida e per tutti quelli che si son tolti la vita “perché dei suicidi non hanno pietà”, La ballata dell’eroe, che è morto inutilmente, Fila la lana, lui non tornerà dalla Crociata e lei lo attenderà “per mill’anni ancora”, Il re fa rullare i tamburi (“La Regina ha raccolto dei fiori, la Regina ha raccolto dei fiori, celando la sua offesa, e il profumo di quei fiori ha ucciso la marchesa”), Caro amore (“e il sole e il vento e i verdi anni si rincorrono cantando verso il novembre cui ci stan portando”), sino al definitivo La Morte, che non so quanti avrebbero avuto il coraggio di cantare in un’epoca in cui la morte, la morte biologica, è stata scomunicata e, per parafrasare Oscar Wild, “è il grande vizio che non osa dire il suo nome” in un mondo che, dall’Illuminismo in poi, ha osato proclamare una sorta di ‘diritto alla felicità’.

Fabrizio De André era un aristocratico e un anarchico. E questo suo essere aristocratico spiega anche una buona parte della sua poetica. De André, prendendo da Brassens è attratto dal mondo medievale dove signori e popolino si mescolano (tutte le rivolte vandeane vedono nobili e popolo uniti contro la borghesia che è uno dei principali obbiettivi polemici di De André). Questa sua aristocrazia, che è una aristocrazia dell’animo, chiarisce il suo piegarsi, con pietas, con misericordia, sugli umiliati e offesi, sulle prostitute, insomma sui vinti della vita (“Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli/in quell’aria spessa carica di sale gonfia di odori/lì ci troverai i ladri, gli assassini e il tipo strano quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano/Se tu penserai e giudicherai da buon borghese li condannerai a cinquemila anni più le spese/Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo/se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo”).

De André era un non credente, uno spregiatore di vescovi, cardinali e Papi, ma era profondamente impregnato di cultura cristiana (Benedetto Croce lo ha detto: “Non possiamo non dirci cristiani”). E’ un esistenzialista (amico fragile, per tutti) ma non nella maniera laica dell’esistenzialismo classico e politico dei Sartre, dei Camus, dei Merleau-Ponty, bensì in un modo che possiamo chiamare religioso. Vede Cristo come uomo e non come figlio di un Dio cui non crede, e non è un caso che una buona parte della sua opera sia coeva a Jesus Christ Superstar in cui viene citato il passo a mio avviso più commovente del Vangelo dove Cristo dubita, umanamente dubita: “Padre, padre, perché mi hai abbandonato?”. E sempre come persone vede Giuseppe e la Madonna ne La buona novella, un’opera di grande portata, Maria è vista come donna, “femmina un giorno, madre per sempre”. E ’il sogno di Maria’, quando lei immagina di essere stata messa incinta dall’Angelo, è un altro straordinario passaggio di poesia e di pietas.

Nella postfazione Erri De Luca scrive che De André non partecipò al Sessantotto ma ammirava da lontano i suoi protagonisti. Niente di più errato. Li disprezzava. Nel Bombarolo canta “intellettuali d’oggi, idioti di domani…profeti molto acrobati della rivoluzione”. Più esplicito di così…

Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2018

San Giovanni in Fiore – CURIOSITÀ: non è che siamo un paese di ubriaconi?

L'immagine può contenere: 1 personaAlbert Camus scriveva che anche un ragazzo povero può crescere felice col mare e col sole.

Qui potremmo dire che anche un sangiovannese povero potrebbe vivere felice con un bicchiere di vino e col freddo.

Sarà tale felicità la ragione di tanti atteggiamenti passivi, o forse ostili, nei confronti di soluzioni politiche innovatrici?

No, non può essere! Non siamo un paese di ubriaconi!

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Chi vive in zone caratterizzate da un clima freddo e con meno ore di luce solare ha maggiore probabilità di diventare un forte bevitore. E’ quanto emerge da uno studio statunitense nel quale è stato individuato un legame tra temperatura media, ore di luce e consumo di alcol.

Secondo la ricerca – realizzata con i dati provenienti da 193 Paesi in tutto il mondo, pubblicata nella rivista ‘Hepatology’ e riportata da diverse testate, tra cui ‘Bbc’ e ‘Times’ – ci sono prove che vivere in determinate condizioni climatiche contribuisce ad una maggiore incidenza di ‘binge drinking’ (il cosiddetto super consumo di alcolici e superalcolici) e di malattie del fegato.

Lo studio, realizzato dai ricercatori del ‘Pittsburgh Liver Research Centre’, “dimostra sistematicamente che, in tutto il mondo e in America, nelle zone più fredde e nelle aree con meno sole, si segnala una maggiore presenza di persone colpite da cirrosi”.

FONTE – adnkronos